Il silenzio delle ombre, la mostra che toglie il fiato

Antonio Schiavano, Il Silenzio delle Ombre

Prorogata fino al 30 settembre l’antologica di Antonio Schiavano: luce, ombra e Fotomorfia in un’esperienza sensoriale unica e imperdibile

di Antonio Portolano

BRINDISI – Il silenzio che scuote e commuove. Ho visitato Il silenzio delle ombre di Antonio Schiavano a Palazzo Granafei-Nervegna e ne sono uscito diverso.

È una di quelle mostre che non si limitano a piacere o a convincere: ti restano dentro. Ti costringono a fermarti, a respirare, a riconsiderare il tuo modo di guardare il mondo. E adesso, grazie alla proroga fino al 30 settembre 2025, chiunque avrà l’opportunità di vivere questa esperienza di intensità rara.

Le sale del palazzo si aprono come stanze di memoria. In ognuna si è attraversati da corpi, ombre, segni. Non è solo fotografia: è materia viva. È emozione che prende forma visibile. Le opere sono più di 140, eppure non c’è mai accumulo. Ogni immagine ha il suo respiro, la sua ferita, la sua voce.

Il potere immersivo della Fotomorfia

La prima sensazione che ho provato è stata quella di entrare in un universo materico. La Fotomorfia, la tecnica inventata da Schiavano, trasforma la fotografia in pelle. Ogni graffio, ogni abrasione, ogni traccia di solvente o pittura è una ferita che racconta. È un gesto che sottrae il corpo all’immobilità della posa e lo restituisce come luogo di resistenza e di poesia. In un’epoca di immagini levigate e consumabili, questa scelta scuote: la bellezza non è più illusione, ma verità incisa.

Antonio Schiavano, Il silenzio delle Ombre

Dentro The Beauty and the Bane: un viaggio con l’autore

Camminando tra le sale dedicate a The Beauty and the Bane, ho avuto l’impressione di entrare in un dialogo privato tra corpi e segni. È qui che ho incontrato Antonio Schiavano, che mi ha raccontato direttamente la genesi delle opere.

Davanti a The Beauty and the Bane 50, la sua voce si è fatta intima: «Un braccio che avvolge e custodisce. In “The Beauty and the Bane 50” la donna sembra rifugiarsi in un gesto essenziale, dove forza e fragilità si incontrano. Il bianco e nero sottrae ogni distrazione, lasciando emergere soltanto il respiro silenzioso di due corpi che si appartengono e si respingono insieme. La volontà di non mostrare il volto esalta la sensazione di fusione tra i due corpi. Un simbolo di integrazione che nell’intreccio tra pelle e ombra, trasforma la distanza culturale in pura intimità. La bellezza diventa rifugio, la ferita si trasforma in carezza».

Davanti a The Beauty and the Bane 51, l’autore ha aggiunto: «La donna si erge, frontale, attraversata da segni che incidono la sua pelle come simboli. Attorno all’ombelico e a uno dei seni, i graffi disegnano quasi un infinito incompiuto, un circuito che parla di ciclicità e di ritorno. Il braccio dell’uomo che la cinge diventa il segno di un legame, di una promessa. In questa serie la nudità non è mai semplice esposizione, ma rivelazione: è nel corpo che si inscrive il dialogo tra differenza e somiglianza, tra lontananza e appartenenza. La bellezza, qui, è un segno che non si cancella».

Arrivati a The Beauty and the Bane 52, il tono è cambiato, diventando grave e riflessivo: «Un corpo che sostiene, un altro che si affida. L’uomo disteso inerme diventa il segno silenzioso delle vite spezzate nei viaggi della migrazione verso il nostro paese. Sopra di lui, una donna si adagia con il volto nascosto tra le braccia: gesto che evoca la rassegnazione dinanzi ad un dolore troppo grande per essere affrontato, quel senso di impotenza che ci schiaccia quando siamo spettatori di tragedie collettive. L’assenza dei volti non è omissione ma scelta: i lineamenti si annullano per trasformarsi in una sola forma, una fusione che rende l’immagine al tempo stesso intima e universale. I segni e le abrasioni che attraversano i corpi diventano tracce di resistenza e vulnerabilità, di bellezza e di peso condiviso».

Infine, di fronte a The Beauty and the Bane 53, la spiegazione è stata netta: «Un’opera che porta all’estremo la mia ricerca. Qui la materia si impone sulla forma, la pelle diventa campo di battaglia, e l’immagine si fa grido. Non è solo bellezza ferita, ma la possibilità che quella ferita diventi testimonianza».

Ascoltare l’autore mentre si è davanti a queste opere rende l’esperienza totalizzante. Non c’è distanza tra spettatore e artista: c’è una condivisione profonda.

Languishing, L’attesa, Riflessi, Dysmorphia, Amarcord

Dopo aver lasciato la sala di The Beauty and the Bane, la mostra continua a sorprenderci. Con Languishing, lo sguardo si posa sulla sospensione. Corpi abbandonati, posture interrotte, un senso di immobilità che ricorda gli anni più duri della pandemia. È impossibile non sentirsi coinvolti. Ci si riconosce in quel languore.

Con L’Attesa, la luce diventa racconto. Figure femminili si stagliano tra forza e vulnerabilità, e si percepisce che ogni gesto custodisce una storia taciuta. È una sala che commuove per la sua delicatezza.

In Riflessi, le immagini di ispirazione quasi surrealista studiano la complessità del corpo umano e le sue astrazioni organiche, soffermandosi sul modo in cui può assumere forme e significati nuovi e anche ambigui. Un’esplorazione di tutte le sfaccettature del corpo: fisica, anatomica, sessuale, spaziale, temporale ed intellettuale. Le immagini sono state composte per suscitare l’accettazione del proprio corpo. Una fotografia fatta di riflessi che mettono l’osservatore di fronte alle proprie vulnerabilità.

La serie Dysmorphia è dura, spiazzante. Qui i corpi si deformano, si rifiutano. Non cercano approvazione, ma verità. È un pugno nello stomaco, un’opera che grida contro il mito della perfezione estetica.

Con Amarcord, invece, arriva la nostalgia trasformata in visione. Case, cortili, paesaggi di Brindisi e del Sud diventano frammenti di memoria che la Fotomorfia restituisce come segni vivi. È impossibile non provare una vibrazione affettiva.

Una mostra che educa allo sguardo

Ciò che colpisce di più, oltre alla forza delle singole opere, è la capacità della mostra di educare lo sguardo. Non siamo di fronte a un’esposizione da consumare in fretta. Ogni sala è un invito a rallentare, a sostare, ad ascoltare. Il silenzio delle ombre non impone significati: offre possibilità di lettura. È uno spazio dove il visitatore diventa co-autore del senso.

Questo approccio trova piena coerenza nelle attività pensate per le scuole. L’Info Point accompagna gli studenti in un viaggio che non è solo estetico, ma anche critico. Si impara a leggere la luce, a comprendere il peso delle ombre, a interpretare la materia. È un’educazione alla visione che manca nel tempo veloce dei social.

Biografia e radici di un linguaggio

L’impatto emotivo delle opere trova radici in una biografia coerente. Antonio Schiavano inizia a fotografare nel 1981 con una Ricoh Kr 10 ricevuta in regalo dal padre. Frequenta il Circolo Fotografico Grandangolo di Brindisi, si forma da autodidatta, e nel 1988 porta il suo primo book a Milano. L’Art Director Giancarlo Rovagnati gli affida subito un incarico. Decisivo anche l’incontro con Renato Marcialis negli studi 10 Watt, da cui apprende disciplina e rigore.

Oggi è riconosciuto come fotografo fine-art e docente. Nei workshop insegna metodo, non formule. Aiuta ciascuno a trovare la propria voce. La sua carriera è costellata da mostre e fiere prestigiose: (un)fair Milano, Lucca Art Fair, Festival OFF di Arles, Milano Art Week, The Phair Torino. Ha pubblicato in ImageMag, Art & Glamour magazine, Corriere della Sera, e con Editoriale Lombarda i volumi Ri-nascita e The Beauty and the Bane.

Perché visitarla

Il silenzio delle ombre non è una mostra da vedere. È una mostra da vivere. È un percorso che emoziona, scuote, sorprende. Uscendo dalle sale, ci si accorge che le immagini restano. Continuano a lavorare dentro, a interrogare. Non sono ricordi, sono presenze.

Informazioni pratiche

Dove: Palazzo Granafei-Nervegna, Via Duomo 20, Brindisi
Quando: fino al 30 settembre 2025
Orari: tutti i giorni, dalle 08:00 alle 19:30
Ingresso: libero
Sito: antonioschiavano.com/mostre/ilsilenziodelleombre